Eleonora Fonseca Pimentel (pseudonimo: Epolnifenora Olcesamante, usato nell’Accademia dei Filaleti, e Altidora Esperetusa, usato nell’Accademia dell’Arcadia) fu protagonista della stagione dell’Illuminismo napoletano che portò alla proclamazione della Repubblica Napoletana nel 1799. La sua vita e le sue opere letterarie sono state oggetto di studi di letteratura, storia del pensiero politico e studi di genere, occasioni in cui si accenna solo superficialmente al suo interesse per l’economia. Questo contributo si propone di illustrare il suo impegno per la realizzazione di importanti riforme socio-economiche (dal campo educativo a quello finanziario) ispirate dai principi della scuola economica napoletana di Antonio Genovesi.
La vita di Eleonora Fonseca Pimentel
Eleonora Fonseca Pimentel nacque a Roma il 13 gennaio 1752 dai portoghesi Clemente Henriques de Fonseca Pimentel Chaves e Caterina Lopez de Léon, entrambi di origini spagnole. All’epoca della nascita di Eleonora, la famiglia Fonseca Pimentel vive a Roma e vi resta fino all’ascesa al soglio papale di Clemente XIII, filogesuita. A causa dei tesi rapporti tra lo Stato Pontificio e il Portogallo, che – in via di modernizzazione – ordinava l’espulsione dei gesuiti, nel 1760, i Fonseca Pimentel scelsero di trasferirsi a Napoli, dove trovarono un ambiente sociale più congeniale alla loro educazione e alle loro abitudini (Maxwell Moffat 1921: 354).
In particolare, Eleonora Fonseca Pimentel si fece conoscere e apprezzare presso la Corte spagnola sin da adolescente. In occasione del loro matrimonio, dedicò ai sovrani Ferdinando IV di Borbone e Maria Carolina d’Austria, il poema Il tempio della gloria (1768). Pochi anni più tardi, celebrò la nascita del principe ereditario Carlo con La nascita di Orfeo (1775). Fu autrice di molti altri componimenti che firmò con gli pseudonimi Epolnifenora Olcesamante, anagramma del suo vero nome, e Altidora Esperetusa, adottati rispettivamente nell’Accademia dei Filaleti e nell’Accademia dell’Arcadia, cui era affiliata. Negli anni, Fonseca Pimentel si fece apprezzare in patria – intrattenne una corrispondenza col poeta Pietro Metastasio (Urgnani 1998, 26) – e all’estero, come si evince dai versi che Voltaire le dedicò in risposta a un “Sonetto della nobile ed egregia donzella Eleonora Fonseca di Pimentel abitante in Napoli” (Voltaire 1776, LXXI).
Oltre alla poesia, che “formava una piccola parte delle [sue] tante cognizioni” (Cuoco 2001 [1801], 403), Fonseca Pimentel perfezionò altre attitudini. Era particolarmente portata per le lingue: la conoscenza del latino e del greco, così come quella del portoghese, del francese e – ovviamente – dell’italiano, le consentì di accedere a una cultura poliedrica e di contribuire alla sua diffusione attraverso l’attività di traduttrice (Simili 2008, 43; Zanini-Cordi 2018, 170). Affascinata dalle hard sciences, si approcciò alla fisica, alla matematica (Sanvitale 1995: IV) e alla biologia (Rebière 1894, 15), pur senza trascurare il suo interesse per le scienze sociali: non solo filosofia, ma anche diritto ed economia, grazie alla frequentazione dei salotti intellettuali di Napoli, in cui circolarono e attecchirono le idee illuministe di Antonio Genovesi, Gaetano Filangieri e Ferdinando Galiani (Croce [1926] 1961, 40).
La morte della madre (1771) interruppe bruscamente la felice esistenza di Eleonora Fonseca Pimentel, che – per salvare la famiglia dalle ristrettezze economiche[1] – fu costretta ad accettare un matrimonio combinato con Pasquale Tria de Solis, un militare di professione completamente privo di cultura (Macciocchi 1993, 152). Questi ostacolava in ogni modo i suoi contatti con altri intellettuali, intercettando le lettere che essi le indirizzavano, e vietandole l’acquisto di persino di materiale da cancelleria. Nonostante gli sforzi disperati per continuare a procurarsi libri, giornali, riviste e per rimanere in contatto con gli intellettuali che animavano i più importanti salotti napoletani (Buttafuoco 1977, 59-60)[2], Fonseca Pimentel rimase isolata e i suoi studi subirono una significativa battuta d’arresto.
Dopo anni di maltrattamenti psicologici e fisici e dopo la perdita dell’unico figlio, nel 1785, Eleonora Fonseca Pimentel chiese la separazione (Schiattarella 1973, 67-90) e, con le poche risorse economiche di cui disponeva, si reinserì nei circoli intellettuali che aveva frequentato in passato. Per sopravvivere, si rivolse alla Corte chiedendo un sussidio che le fu assegnato in virtù dei suoi “non ordinari talenti, […] superiori alla sfera del suo sesso” (Schiattarella 1973, 94; corsivo mio). Oltre al sussidio, che le fu accordato “per il suo stato di indigenza e per i suoi meriti letterari” (Urgnano 1998, 31; Zanini-Cordi 2018, 181), Fonseca Pimentel ottenne anche l’incarico di bibliotecaria della regina Maria Carolina, che nutriva una profonda stima nei suoi confronti.
La sovrana di origini asburgiche si faceva promotrice di importanti riforme nel Regno di Napoli. Tra gli obiettivi della regina c’era quello di emancipare Napoli dall’influenza del Regno spagnolo e, per questa ragione, nel 1776, destituì il ministro Tanucci, decisa a esercitare le sue prerogative politiche. Diversamente da Ferdinando IV, che trascorreva gran parte del suo tempo a caccia o a pesca in compagnia di individui che non erano all’altezza della vita di corte, la regina Maria Carolina amava circondarsi di eminenti rappresentanti della scienza, dell’arte e della letteratura. Negli anni, aveva inaugurato musei, biblioteche, scuole d’arte e aveva sollecitato l’istituzione di nuove cattedre nell’Università di Napoli, chiamando nomi illustri a insegnare diritto (Mario Pagano), greco (Pasquale Baffi) e botanica (Domenico Cirillo). Molti intellettuali dell’epoca, tra cui Eleonora Fonseca Pimentel, si unirono a questo piccolo gruppo di docenti per promuovere l’idea di dispotismo illuminato e per sostenere la sovrana nella realizzazione di una serie di riforme sociali, come Voltaire aveva fatto con Caterina di Russia (Tignola 1943; Zanini-Cordi 2018, 175).
Il circolo di intellettuali cui apparteneva anche Fonseca Pimentel condivideva le idee degli illuministi francesi, in particolare degli Enciclopedisti, di Rousseau[3] e di Voltaire[4]. Proprio tali influenze, che tanto avevano giovato al periodo riformista alimentato dalla sovrana, causarono un cambio di rotta da parte di quest’ultima, quando dalla Francia giunse la notizia dello scoppio della Rivoluzione, culminata con la decapitazione di Luigi XVI e di Maria Antonietta, amata sorella di Maria Carolina.
Questi drammatici eventi terrorizzarono i Borbone che temevano il tradimento della classe intellettuale napoletana. Maria Carolina agì in via preventiva, organizzando una vera e propria rete di spionaggio e allontanando tutti gli uomini e le donne che fino ad allora avevano animato la corte con i loro discorsi illuminati e le loro proposte di riforma. In realtà, vi erano due motivi per cui ciò che era accaduto in Francia difficilmente poteva ripetersi a Napoli. In primo luogo, gli intellettuali napoletani continuavano a credere nella forza di pacifiche riforme sociali più che nella potenza scatenata dalla rivoluzione (Macciocchi 1993, 89). In secondo luogo, anche quando furono costretti a imbracciare le armi per resistere alla furia dei sovrani, dando inizio alla Rivoluzione napoletana, gli intellettuali non raccolsero il sostegno del popolo, che si schierò a favore di quel sovrano “pigro, ignorante e superstizioso”, paradossalmente considerato più vicino ai ceti incolti (Urgnani 1998, 21). Questo aspetto fu decisivo per determinare esiti della Rivoluzione napoletana che non erano comparabili con quelli della Rivoluzione francese. La Repubblica napoletana, infatti, proclamata il 22 gennaio 1799 durò poco più di cinque mesi, anche a causa del fatto che la Francia – che aveva appoggiato i rivoluzionari partenopei –, non era disposta a impiegare uomini e mezzi armati fino al superamento definitivo della monarchia. D’altra parte, Ferdinando IV – lungi dall’essere sconfitto – aveva trovato riparo in Sicilia, con navi cariche di ricchezze, e sarebbe ritornato a sedere sul trono in brevissimo tempo, dopo che l’esercito della Santa Fede guidato dal cardinale Ruffo aveva riconquistato la città di Napoli in suo nome (13 giugno 1799).
Eleonora Fonseca Pimentel fu una figura apicale nella diffusione delle idee illuministe e repubblicane e proprio per questa ragione fu condannata all’impiccagione da quella stessa regina che, nel periodo più difficile della sua vita privata, le aveva aperto nuove prospettive. Il 20 agosto 1799, salì al patibolo e, secondo la testimonianza del compagno rivoluzionario Vincenzo Cuoco, prima di essere impiccata, ella pronunciò un verso dell’Iliade di Virgilio: Forsan et haec olim meminisse iuvabit (forse un giorno gioverà ricordare tutto questo).
Le idee economiche di Eleonora Fonseca Pimentel.
Nel 1754, quando Eleonora Fonseca Pimentel aveva solo due anni, Antonio Genovesi (1713-1769) fondò la scuola economica napoletana. Spazzando via le aspre critiche di Francesco Ferrara (1852) all’approccio con cui gli Illuministi Napoletani (come i Milanesi) guardavano ai temi dello sviluppo economico, Joseph A. Schumpeter dirà che la scuola napoletana non aveva nulla da invidiare “alla maggior parte degli studiosi contemporanei spagnoli, inglesi, francesi” (Schumpeter 1986 [1954]: 172).
Come ha correttamente rilevato Eugenio Zagari, le critiche di Ferrara hanno un senso solo se si trascura (o non si condivide, come lui) il metodo deduttivo-induttivo di Antonio Genovesi che, da un lato, si propone di “formulare un insieme di relazioni di base logicamente coerente” e, dall’altro, tenta di “spiegare la diversità del mondo reale” (Zagari 2007, 72).
Anni dopo, ispirato dal “metodo logico-storico” della scuola di Antonio Genovesi, un gruppo di intellettuali maturava gradualmente l’idea di dare al Regno di Napoli una nuova forma di governo, che consentisse il miglioramento delle condizioni socio-economiche di tutta la popolazione, inclusi i ceti sociali meno abbienti. Tra i più attivi nel delineare una serie di riforme volte a realizzare una transizione pacifica e graduale dalla Monarchia alla Repubblica Napoletana, vanno annoverati almeno Giuseppe Maria Galanti (1743-1806), Francesco Mario Pagano (1748-1799) e Gaetano Filangieri (1752-1788)[5]. È in questo circolo intellettuale che Fonseca Pimentel trovò il suo ambiente naturale ed è in esso che maturò le sue idee sul progresso della società, sull’importanza dell’educazione e su questioni più specificamente economiche. Nelle vicende politiche che la videro coinvolta, ella dimostrò in maniera evidente la forte volontà di coniugare la proposta teorica di Genovesi con un impegno “fattivo” che sostenesse la transizione dalla società feudale alla società moderna e che facilitasse lo sviluppo contemporaneo di tutti e tre i settori produttivi (agricoltura, manifattura, commercio), come suggerito nelle Lezioni di Economia Civile (1765) del caposcuola napoletano. Le cause che impedivano ai tre settori produttivi di raggiungere un livello di sviluppo soddisfacente erano tutte sostanzialmente riconducibili all’organizzazione feudale della società: tradizionali rapporti di proprietà, antichi e inefficienti regimi fiscali e doganali, basso grado di alfabetizzazione del popolo e diffuse condizioni di povertà, “malgoverno delle istituzioni” (Zagari 2007, 86-87).
In diversi scritti di Fonseca Pimentel è possibile individuare molti punti in comune con l’impianto generale di Genovesi.
L’importanza che ella attribuiva alle riforme sociali sul piano economico, giuridico, istituzionale emerge sin da una delle sue prime composizioni poetiche, Il trionfo della virtù (1777), dedicata al Marchese di Pombal (1699-1782), ministro e reggente del Portogallo durante la lunga malattia del re Giuseppe I (1750-1777). Pombal era apprezzato per la promozione e la celerità delle riforme realizzate per assicurare il progresso dello stato monarchico, senza rinunciare alla felicità del popolo (dispotismo illuminato) (Venturi 1984, 227–230; Rao 2006: 183; Maxwell 2015; Gonçalves e Ribeiro 2015). Si ricordino, in particolare, la riduzione del potere dell’Inquisizione, la modernizzazione dell’esercito, l’abolizione della schiavitù nelle colonie portoghesi e nella madrepatria, la ricostruzione della città di Lisbona dopo il terremoto del 1755, l’istituzione del primo sistema scolastico statale.
È qui sufficiente menzionare l’ammirazione di Fonseca Pimentel per le ultime due iniziative di Pombal. Ella riconosceva grande importanza all’impegno del ministro portoghese per riformare il sistema scolastico statale e, in parte, il sistema accademico. La sola attivazione della cattedra di ius patriae nell’Università di Coimbra aveva contribuito ad aprire “i venerandi santuari e delle scienze, e delle patrie leggi” a una moltitudine di persone, che potevano finalmente sperimentare “la duplice felicità di essere felici, e di conoscersi tali” in quanto cittadini di una nazione (Fonseca Pimentel 1777: 7). Quanto all’opera di ricostruzione post-terremoto della capitale portoghese che aveva generato un vero e proprio modello di piano urbano illuministico (Lanciani 2009, 83-84), essa rispecchiava l’idea della scuola napoletana che il rinnovamento urbanistico fungesse da propulsore alla crescita di tutti i settori produttivi (Zagari 2007, 85).
All’epoca in cui Fonseca Pimentel esprimeva la sua ammirazione per il governo del ministro Pombal, era molto vicina alla Corte napoletana. Seppur consapevole delle differenze tra i due regni, credeva che i Borbone (in particolare, la regina Maria Carolina) potessero garantire al Regno di Napoli una serie di riforme simili a quelle realizzate in Portogallo, promuovendo “nuove arti, nuova agricoltura, e nuovo propagato commercio” (Fonseca Pimentel 1777: 6-7).
In quest’ultima citazione di Fonseca Pimentel ritroviamo l’eco delle aspirazioni che Genovesi nutriva per l’ammodernamento del Regno di Napoli. La stessa eco avrebbe risuonato significativamente nel sonetto composto da Fonseca Pimentel in occasione della pubblicazione dei Componimenti poetici, per le leggi date alla nuova popolazione di Santo Leucio da Ferdinando IV re delle Sicilie.
San Leucio è il noto nucleo urbano in provincia di Caserta dichiarato ufficialmente Real Colonia nel 1789. Re Ferdinando IV emanò uno Statuto con cui dettava ai suoi abitanti una serie di leggi, apparentemente ispirate dal progetto illuministico di riforme sociali redatto dal ministro Bernardo Tanucci (1769), prima che Maria Carolina lo esautorasse. Nel contesto del Regno di Napoli, la colonia di San Leucio poteva configurarsi come un esempio di politica colbertiana, ossia di promozione del settore secondario attraverso l’istituzione di manifatture reali. Nel 1776, presso la colonia venne fondata una piccola manifattura di veli di seta (materia prima abbondante nel Regno di Napoli e rara tra i “popoli Settentrionali”) che, gradualmente, diversificò la produzione (calze e tessuti pregiati). La lavorazione di drappi prevedeva l’utilizzo di telai, forniti ai gruppi familiari che lavoravano a cottimo e alloggiavano in abitazioni a schiera dei quartieri di nuova edificazione. Già nel 1765, nel corso Delle lezioni di commercio o sia d’economia civile, Antonio Genovesi si era espresso sulle potenzialità dell’industria serica, che meritava “la protezione del Sovrano, e i favori delle regole economiche, cioè facile giro” (Genovesi [1765] 1995, 332). L’esperienza di San Leucio[6] coniugava, quindi, due aspetti del progetto illuministico napoletano: avviare un processo di specializzazione nel settore di lavorazione artigianale della seta e riqualificare una zona del Regno di Napoli, dimostrando come la progettazione avveniristica dell’architetto Vanvitelli potesse corroborarne lo sviluppo sociale ed economico.
Nel quadro di apprezzamento per l’esperimento di San Leucio, si colloca il sonetto di Fonseca Pimentel, che si conclude con due terzine espressamente dedicate ai Borbone:
… Fernando il Tifate apre e disgiunge,
E nobil terra in fu l’alpestre vetta
Fonda, e l’arti vi chiama, e onor le aggiunge.
E d’innocenza, e di virtù perfetta,
Mentre Egeria più saggia a sé congiunge,
Novello Numa, nuove leggi ei detta.
(Sonetto in Cosmi 1789: 123)
Anche se Fonseca Pimentel riconosceva a re Ferdinando IV il merito di aver fondato la colonia di San Leucio, attribuì alla regina Maria Carolina il ruolo di ispiratrice delle regole dettate dal sovrano, paragonando la sua influenza a quella che la ninfa Egeria aveva esercitato su Numa Pompilio, secondo re di Roma.
Sono numerose le conferme del fatto che a guidare il Regno fosse la regina austriaca, accettando di buon grado molte proposte riformatrici avanzate dal circolo degli Illuministi. Si ricordi, per esempio, la battaglia di Maria Carolina per l’abolizione della chinea. La tassa, istituita nel XIII secolo da Carlo d’Angiò a favore di papa Clemente IV, faceva parte di quei retaggi feudali che riconoscevano la superiorità del potere ecclesiastico rispetto a quello temporale e che impedivano la piena utilizzazione di risorse materiali e intellettive necessarie allo sviluppo giuridico ed economico della società (Franco 2022, 72).
Fonseca Pimentel intervenne nel dibattito che si era riacceso periodicamente nei secoli precedenti, schierandosi al fianco di Maria Carolina. Oltre a comporre un Sonetto sulla Chinea (1788), (Jones 2019, 52), Fonseca Pimentel tradusse dal latino l’opera di Nicolò Caravita (1707), e pubblicò la versione italiana, corredata di sue note, con il titolo Niun diritto compete al Sommo Pontefice sul regno di Napoli, dissertazione Istorica-Legale del consigliere. La sua prefazione, La questione dell’indipendenza del regno di Napoli dalla Santa Sede (1790), testimonia l’eccezionale ampiezza delle letture di Fonseca Pimentel sul tema (Maxwell Moffat 1921: 859)[7]. Citando Amato Danio, Lodovico Antonio Muratori, Pietro Giannone, l’Abate Placido Troyli e l’avvocato Bernardo Brussoni (Fonseca Pimentel 1790 [1943], 241-246), ella documentava un’approfondita conoscenza delle argomentazioni che esperti delle più varie discipline avevano avanzato, in periodi storici differenti, per dimostrare che i rapporti tra il Papa e il Sovrano erano di tipo paritario. Il rito con cui il primo investiva di potere il secondo era da considerarsi, in molti casi, il simbolo della protezione di San Pietro, concessa ai re che lo richiedevano (Fonseca Pimentel 1790 [1943]: 246), mentre le donazioni di un re al papa rappresentavano spesso una sorta di risarcimento per terre che gli erano state sottratte da predecessori.
Sul tema del superamento dell’organizzazione feudale della società, Fonseca Pimentel tornò in diversi articoli pubblicati nel “Monitore napoletano”, l’organo di stampa della Repubblica napoletana (Capobianco et. al. 1993, 133-162) che – pur richiamando esplicitamente l’esperienza de “Le Moniteur” di Parigi – presentava caratteri di novità, convogliati in “una formula giornalistica antiretorica” che raccontava in termini stringati ed esaurienti i progressi (e i ritardi) del governo repubblicano istituito nel 1799 (Sanvitale 1995, VII)[8].
In molti articoli, Fonseca Pimentel si limitava a verbalizzare i dibattiti del governo su questioni fondamentali. È il caso dell’articolo Discussione de’ feudi (9 aprile 1799), in cui l’autrice annunciò il progetto di legge con cui il governo repubblicano intendeva rientrare in possesso della gran parte delle terre possedute illegittimamente dai signori feudali (Fonseca Pimentel [1799b] 1943: 93).
Per i fondatori della Repubblica napoletana, tuttavia, la vera priorità consisteva nello stabilire un rapporto di fiducia con il popolo. Era opinione condivisa dagli Illuministi che l’educazione costituisse per ogni individuo, indipendentemente dalla sua posizione nella scala sociale, l’occasione per sottrarsi allo stato di disgrazia in cui viveva, diventando contemporaneamente “strumento” attivo nella costruzione della “felicità pubblica”[9].
Raccogliendo l’insegnamento di Genovesi, Fonseca Pimentel espresse vivamente il senso di impellenza che muoveva lei e il governo repubblicano verso la riduzione del gap culturale tra i ceti sociali. I lazzari non accettavano le dichiarazioni dei rivoluzionari, che sostenevano di aver agito nel loro interesse, perché non riconoscevano alla Repubblica democratica la capacità di difendere i loro diritti, continuando a credere nella monarchia come unica protettrice del loro destino (Sanvitale 1995, VII)[10]. Assicurare l’istruzione universale ai cittadini napoletani era una necessità ormai improrogabile (Sanna 2012, 221; Della Colletta 2017, 110-111), poiché una parte della loro incomprensione per lo sforzo del governo repubblicano derivava certamente dal fatto che le frange più povere della popolazione parlavano esclusivamente il dialetto napoletano. A tal proposito, Fonseca Pimentel affermava che solo attraverso l’Educazione della plebe (9 febbraio 1799), quest’ultima poteva trasformarsi in popolo e comprendere i diritti che le spettavano. L’importanza di raggiungere tale obiettivo la spinse a proporre soluzioni “non convenzionali”. Tra queste: la richiesta agli “zelanti cittadini” di pubblicare “civiche arringhe nel patrio vernacolo napoletano”, affinché fossero comprese anche dal popolo che non era avvezzo all’uso della lingua italiana e la pubblicazione di Gazzette in dialetto (16 aprile 1799). Essendo consapevole del fatto che la maggior parte dei popolani non solo non conosceva l’italiano, ma nemmeno sapeva leggere il vernacolo, Fonseca Pimentel propose anche che i giornali pubblicati in dialetto fossero letti dai “preti illuminati” ai fedeli della domenica. Infine, rilevò l’importanza di altri strumenti di diffusione culturale, quale l’impiego di inni e canzoni patriottiche e, persino, di spettacoli “di pupi” per spiegare agli analfabeti le virtù della Repubblica.
Per Fonseca Pimentel, la promozione della cultura e dell’istruzione pubblica passava anche per la difesa dei luoghi deputati a diffonderla. Questo aspetto si lega a un altro elemento, di natura più economica, su cui l’autrice si soffermò nell’articolo Contro le tombole (16 aprile 1799). Fonseca Pimentel espresse la sua profonda indignazione per il cambio di destinazione d’uso del Teatro del Fondo di Napoli, rivendicandone l’uso pubblico e condannando il fatto che era divenuto sede di giochi d’azzardo. Già il “dotto Milanese” Pietro Verri aveva espresso il proprio biasimo per le lotterie private, che rappresentavano una vera e propria ingiustizia, agevolando l’esclusivo arricchimento di pochi privati. Poiché l’esistenza delle “tombole” doveva avere come unico obiettivo l’aumento delle entrate nella casse dello Stato, la loro gestione non poteva che essere pubblica (Fonseca Pimentel 1799c [1943], 108). Le attività che si svolgevano nel Teatro del Fondo di Napoli, in quella fase storica, violavano due principi fondamentali: l’uso adeguato di un luogo di cultura e il divieto di speculare privatamente sui giochi d’azzardo.
Ultimo tra i temi di carattere economico, con inevitabili ricadute sociali, su cui Fonseca Pimentel sembra essersi a lungo impegnata è quello relativo al bisogno di ammodernare il sistema bancario del Regno di Napoli. All’epoca della Repubblica napoletana del 1799, tale sistema conservava ancora i caratteri che aveva assunto nell’ultimo quarto del XVI secolo. Quando le importazioni di metalli preziosi dal Nuovo Mondo non erano più sufficienti per coniare nuova moneta (e considerati i problemi inflazionistici che erano derivati dal suo eccesso subito dopo la “scoperta” dell’America), il governo napoletano aveva optato per una massiccia circolazione di strumenti creditizi, sollevando preoccupazioni per la tenuta dei conti pubblici (Tiran 2020a).
Nell’articolo Legge sui banchi (11 maggio 1799), Fonseca Pimentel esponeva sinteticamente la proposta di legge con cui si intendeva portare a scadenza, il prima possibile, tutte le “fedi di credito” che circolavano a Napoli. Il governo repubblicano nutriva, infatti, molte perplessità su questo strumento del sistema creditizio, che certificava il deposito di denaro presso la banca e prevedeva che la riscossione – richiesta dal medesimo depositante o da un creditore dello stesso, esibendo allo sportello un ordine di pagamento (polizza) – veniva concessa dall’istituto bancario solo dopo aver verificato l’esistenza di specifiche condizioni contrattuali, stabilite al momento del deposito del denaro (Tiran 2020b, 332). La macchinosità del sistema finiva per ridurre sensibilmente il denaro in circolazione, lasciandolo “sepolto negli scrigni privati” dei possessori di titoli bancari (Fonseca Pimentel [1799e] 1943, 129). Ne derivavano due conseguenze negative: in primo luogo, si riduceva la base imponibile su cui far gravare i tributi fiscali; in secondo luogo, il libero commercio dei beni rallentava, tradendo le aspettative degli economisti napoletani formatisi alla scuola di Genovesi[11].
In questo articolo, Fonseca Pimentel si limitò a verbalizzare le conclusioni cui era arrivato il governo repubblicano, discutendo della necessità di riorganizzare il sistema bancario. Non approfondì l’argomento, ma accennò a un suo progetto di riforma dello stesso sistema, “ideato fin dal 1790” (Fonseca Pimentel [1799e] 1943, 130). Sfortunatamente, Fonseca Pimentel non riuscì a pubblicare il suo libro e, probabilmente, il manoscritto si trovava tra le carte dei rivoluzionari napoletani distrutte per ordine di Maria Carolina.
Che la proposta di riforma in campo finanziario avanzata da Fonseca Pimentel fosse degna di lode è testimoniato dall’illuminista Giuseppe Gorani. In occasione della lettera con cui sollecitava il sovrano Ferdinando IV a sostenere lo sviluppo del settore primario, concedendo prestiti bancari a condizioni favorevoli agli imprenditori agricoli, l’Illuminista milanese citava l’“opera interessante su questo argomento” scritta da Fonseca Pimentel che “merita[va] di essere premiata, …, per il suo talento e le sue virtù” (Gorani 1893 [1792], 91).
Anche nelle sue Mémoires, Gorani torna a lodare “Dona Eléonore Fonseca Pimentel” per aver composto “un livre sur un projet de banque nationale où il y a des vues très profondes qui pourraient intéresser les hommes les plus instruits dans ces matières” (Gorani 1794, 78).
Fonseca Pimentel sperava di poter sottoporre il suo progetto di riforma bancaria all’attenzione del governo repubblicano “quando le circostanze [fossero state] tali da ammetterne lo stabilimento”. Ella era sicura della bontà del suo progetto, perché aveva già ricevuto l’approvazione del “famoso Schmidt, e del nostro Giuseppe Palmieri” (Fonseca Pimentel [1799e] 1943, 130-131)[12].
Chi fosse Giuseppe Palmieri è cosa nota: membro e capo del Consiglio delle finanze, si adoperò per riformare l’amministrazione, semplificare il sistema tributario e potenziare le infrastrutture del Regno di Napoli. È rimasto, invece, da chiarire chi fosse il secondo dei destinatari del progetto di riforma bancaria di Fonseca Pimentel. Benedetto Croce si interrogò sulla questione all’epoca della curatela degli scritti politici di Fonseca Pimentel, senza dare una risposta definitiva e concludendo che dovesse trattarsi di uno sconosciuto “competente finanziere e bancario” (Croce in Fonseca Pimentel [1799e] 1943, 130, nota 2). Egli escluse che potesse trattarsi di Adam Smith[13], per due ragioni. Innanzitutto, l’autore della Wealth of Nations era morto nel 1790, lo stesso anno in cui Fonseca Pimentel aveva “ideato [il suo] piano e progetto” (Fonseca Pimentel [1799e] 1943, 130). In secondo luogo, era improbabile che una donna colta come lei avesse commesso “un inverosimile errore di scrittura per ‘Smith’” (Croce in Fonseca Pimentel [1799e] 1943, 130, nota 2). In questa nota molto stringata, Croce non fa menzione della sua richiesta di aiuto a Luigi Einaudi per identificare tale Schmidt, né del fatto che Einaudi scartò la ben più verosimile ipotesi che potesse trattarsi di Georges-Louis Schmidt d’Avenstein, intellettuale svizzero molto noto nell’ambiente illuminista italiano e in contatto con diversi personaggi legati alla stessa Fonseca Pimentel (Pisanelli 2024).
[1] Eleonora Fonseca Pimentel rinunciò al suo titolo di marchesa a seguito della proclamazione della Repubblica napoletana, riconoscendo il proprio passaggio dallo status di nobile allo status di cittadina. Eliminò, quindi, dal suo nome la particella nobiliare “de”. È per rispetto a questa sua volontà che è, qui, indicata come Eleonora Fonseca Pimentel.
[2] Con questi mezzi, acquistò opere di poesia e si abbonò all’Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, par une société de gens de lettres curata da Denis Diderot e da Jean Baptiste Le Rond D’Alambert, come indicato dalla testimonianza di Filippo Maria Guidi al processo per la separazione di Fonseca Pimentel da Pasquale Tria (Schiattarella 1973: 70).
[3] Per i rapporti di Rousseau con l’Italia, si veda Firpo 1963.
[4] Per l’influenza di Voltaire sull’Italia, si vedano Bouvy 1898 e Danna 1996.
[5] Come accennato nella sezione relativa alla vita di Eleonora Fonseca Pimentel, tale pacifica transizione si trasformò in rivoluzione, a fronte del cambio di atteggiamento da parte dei despoti illuminati.
[6] Tale esperienza sembrava muoversi secondo la logica che caratterizza la genesi e lo sviluppo di quelli che oggi chiamiamo distretti industriali. Ricordiamo che i caratteri di questi ultimi sono una forte identità locale, una vocazione produttiva specialistica e la propensione all’esportazione dei beni prodotti. In queste aree si sviluppa un sapere diffuso che permette incrementi nella produttività del lavoro e propensione all’innovazione sia degli strumenti produttivi (nell’esperimento di San Leucio, il telaio), sia dei prodotti (dalla semplice lavorazione della seta alla produzione di calze e di tessuti pregiati). Questi processi si sviluppano in una specifica “dimensione normativa” (lo Statuto promulgato da Ferdinando IV) caratterizzata da un forte impegno nel lavoro e da una capacità cooperativa sia nelle aziende che nella regolazione delle attività economiche a livello territoriale” (Trigilia 2004: 37).
[7] Si coglie, qui, l’occasione per ricordare che, con l’eccezione dell’articolo di Maxwell Moffat nel 1921, Fonseca Pimentel tornò al centro di ricerche scientifiche solo negli anni Settanta del Novecento (Schiattarella 1973, Buttafuoco 1977). Una nuova stagione è iniziata negli anni Novanta (Capobianco et al. 1993, Macciocchi 1993, Sanvitale 1995, Urgnani 1998), seguita da un revival nelle prime due decadi del Ventunesimo secolo (Rao 2006, Pellizzari 2009, Giorgio 2011, Sanna 2012, Iermano 2013, Della Colletta 2017, Zanini-Cordi 2018, Jones 2019, Orefice 2019).
[8] È stato osservato che Fonseca Pimentel non fu l’unica giornalista del Settecento italiano. È noto il caso di Elisabetta Caminer Turra alla guida de del Giornale enciclopedico (Schiattarella 1973: 99, nota 11) e de L’Europa Letteraria (Kulessa 2015), così come il caso di Teresa M., giornalista de Il Quotidiano bolognese, ossia raccolta di notizie segrete (Musiani 2018: 354). A differenza delle altre due, Fonseca Pimentel operò come giornalista politica in condizioni molto difficili. I 35 numeri (due alla settimana) del giornale repubblicano incontrarono i pregiudizi di coloro che si opponevano alla Repubblica napoletana, ma anche il risentimento degli stessi rivoluzionari che, con grande onestà intellettuale, l’autrice criticava per decisioni politiche ritenute inadeguate.
[9] Annarita Buttafuoco ha ipotizzato che Fonseca Pimentel entrò in contatto con i ceti sociali più svantaggiati della città di Napoli durante gli anni del matrimonio con Pasquale Tria, maturando in questa occasione la convinzione che fosse necessario istruirli affinché comprendessero lo sforzo riformatore degli intellettuali napoletani (Buttafuoco 1977, 75-76; Giorgio 2011, 306). È molto probabile, invece, che Fonseca Pimentel avrebbe promosso ugualmente il diritto universale all’istruzione, anche se non avesse avuto contatti diretti con il popolo analfabeta. Com’è noto, la tendenza a garantire adeguati livelli di istruzione a ciascun individuo era propria della cultura illuminista, i cui principi erano stati inculcati a Fonseca Pimentel sin da bambina. Non va trascurata, inoltre, la specifica influenza di Gaetano Filangieri che proponeva un progetto educativo adattabile alle specifiche condizioni della società meridionale, differenziando il tipo di istruzione da impartire in base alla classe sociale di appartenenza, alla professione esercitata o esercitabile (Luciani 2004, 165-166). Filangieri fu anche promotore (con Paolo Mattia Doria) di riforme per l’istruzione femminile, sebbene non paritaria rispetto all’istruzione maschile (Bouchard 2009, 233).
[10] Nel suo romanzo storico su Eleonora Fonseca Pimentel, Enzo Striano ha ben descritto “la pigrizia dell’intelligenza, la sudditanza verso i forti e i prepotenti, […] il vuoto morale, l’assenza dell’indignazione” che caratterizzava i giovanissimi sudditi del regno di Napoli (Iermano 2013, 68).
[11] Oltretutto, Fonseca Pimentel lamentava il fatto che nei quartieri popolari nessuno fosse stato messo a conoscenza dei significativi provvedimenti che il Governo repubblicano aveva preso in materia. Un esempio fra tutti era l’abbattimento dei dazi doganali imposti sulla libera circolazione di beni essenziali come la farina (Fonseca Pimentel [1799e] 1943, 131).
[12] Secondo fonti secondarie, Fonseca Pimentel avrebbe fatto riferimento allo stesso progetto anche in una lettera indirizzata all’incaricato consolare portoghese Giuseppe da Souza (Urgnani 1988, 34).
[13] Adam Smith avrebbe potuto essere, in effetti, un destinatario ideale del progetto di Fonseca Pimentel, dato che – com’è noto – aveva inserito una Digression concerning Banks of Deposit nel capitolo della Wealth of Nations dedicato alle irragionevoli restrizioni imposte sulla libera importazione dei beni, dovute anche ai meccanismi di cambio tra “current money” e “bank money” (Smith [1776] 1979: 479-488).
OPERE
Pubblicazioni
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- 19.02.1799.” In Il “Monitore Repubblicano” del 1799. Articoli politici seguiti da scritti vari in verso e in prosa della medesima autrice, curato da Benedetto Croce. Bari, Laterza, pp. 46–47
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- “Sonetto.” In Componimenti poetici, per le leggi date alla nuova popolazione di Santo Leucio da Ferdinando IV re delle Sicilie, curato da Domenico Cosmi. Napoli, Stamperia Reale, p. 123.
Attività a carattere economico
Traduzioni
Manoscritti e altri documenti
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Immagini
Link ad altre immagini
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