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Carte da gioco di Isabella de Mari Doria. Sul retro di ogni carta, Isabella teneva traccia della data, di dove si era svolta la sessione e del bilancio tra vincite e perdite. Fonte: Centro di Studi e Documentazione di Storia Economica «Archivio Doria» 818, Isabella De Mari Doria, carte da gioco (c.1778-1786).

De Mari - Doria Isabella

Genova, 12 giugno 1708 - Genova, 30 marzo 1785
  • di
    Antonio Iodice, 2024

Nel diciassettesimo e diciottesimo secolo, i manuali destinati all'educazione delle donne solitamente escludevano qualsiasi interesse per le attività economiche al di fuori della sfera domestica. Tuttavia, le situazioni quotidiane dimostrano come le eccezioni fossero comuni. A Genova, ad esempio, le donne potevano assumere ruoli che andavano da amministratrici dei beni familiari a vere e proprie imprenditrici. Il reddito personale e la volontà di gestire il capitale in prima persona potevano portare a scenari più o meno inusuali, soprattutto per le donne la cui propensione al rischio permetteva loro di partecipare in settori tradizionalmente dominati dagli uomini, come l'alta finanza. Isabella de Mari Doria (1708-1785), per la ricchezza delle informazioni disponibili e l'entità dei capitali gestiti, rappresenta in quest’ambito un esempio particolarmente significativo. Isabella fu un esponente dell'aristocrazia genovese, ereditiera e vedova in giovane età, coinvolta in un circuito di investimenti europei e in una vasta rete di gioco d'azzardo sviluppatasi nei principali salotti dei nobili e delle nobildonne genovesi del suo tempo. L'analisi dei suoi libri contabili e delle lettere di istruzioni ai suoi corrispondenti a Roma, Genova, Parigi, Vienna, ecc., ha permesso di ricostruire l'ambiente imprenditoriale in cui operava, il suo approccio agli affari e la misura in cui questo era influenzato dal suo status di donna e di vedova.

Questa scheda si concentra sulla vita di Isabella De Mari, nobildonna genovese vissuta dal 1708 al 1785. Nonostante non abbia scritto pamphlet o trattati, ella fu una figura di spicco nel mondo della finanza del suo tempo, con ampie connessioni nel patriziato genovese e coinvolta attivamente in vari mercati finanziari europei. Inoltre, Isabella fu anche quasi quotidianamente dedita al gioco d'azzardo con gli altri nobili locali.

Isabella nacque il 12 giugno 1708 da Stefano Maria De Mari e Maria Durazzo. La famiglia De Mari era tradizionalmente impegnata nell'attività armatoriale fin dal XVII secolo, quando aveva molti interessi commerciali nell'Italia meridionale e in Spagna. Diversi De Mari, ad esempio, ottennero la cittadinanza napoletana e sottoscrissero prestiti alla corona spagnola. Le bancarotte spagnole colpirono duramente la famiglia De Mari, ma tra il 1624 e il 1626 Stefano De Mari era ancora coinvolto in prestiti alla corona di Spagna con il fratello Giovanni Battista.

Uno dei suoi numerosi figli, Domenico Maria, fu il nonno di Isabella. Domenico Maria nacque a Genova nel 1653, risiedette probabilmente per qualche tempo in Spagna e ricoprì diverse cariche politiche in patria: fu doge nel 1707. In totale quattro De Mari, tra cui Domenico Maria, ricoprirono la massima carica della Repubblica. L'ultimo fu Lorenzo De Mari, cugino di Isabella, nel 1744-1746. I De Mari erano dunque una delle famiglie nobili genovesi più in vista del XVIII secolo.

Stefano Maria De Mari, primogenito di Domenico Maria e padre di Isabella, nacque nel 1679 ed ereditò le attività di famiglia, mentre il fratello Francesco intraprese la carriera ecclesiastica. Stefano Maria fu un ricco mercante ed operò nel settore dell'importazione di tessuti e stoffe di buona qualità, in particolare dalla Francia. Trattava soprattutto ‘merci francesi’, ma importava ed esportava su commissione anche liquori, anguille, cioccolata e altri prodotti. Le sue attività finanziarie furono marginali, ma investì parte del suo denaro nel debito pubblico di diversi Paesi italiani ed europei.

Stefano Maria ebbe due figlie: Isabella, la maggiore, nata nel 1708, e Clelia. Non abbiamo informazioni sull'infanzia di Isabella. Nel 1728, il padre ne organizzò il matrimonio con Tommaso Ambrogio, figlio di Giorgio Doria del ramo di Montaldeo. I Doria erano un'altra delle più note famiglie nobili genovesi. Il matrimonio fu sontuoso e in gran parte pagato dalla famiglia Doria. Dal matrimonio con Tommaso, Isabella ebbe quattro figlie – Teresa Maddalena, Vittoria, Marina e Gleba - e un figlio, Giorgio. La famiglia visse tra il palazzo dei Doria di Genova, la villa De Mari a Sestri Ponente, il feudo Doria di Montaldeo e la residenza di villeggiatura di Novi, nell'entroterra.

Nel 1739, dopo undici anni di matrimonio, Tommaso Ambrogio morì all'età di quarantotto anni, mentre Isabella ne aveva trentuno. Esistono alcuni libri contabili a nome di Tommaso, ma essendo morto prima del padre, non fu mai proprietario del patrimonio familiare. Era semplicemente titolare di alcune rendite assegnategli dal padre e dallo zio Clemente al momento del matrimonio.

Dopo la morte di Tommaso, fu suo padre Giorgio Doria ad assumere formalmente la gestione finanziaria della famiglia di Isabella e ad amministrarne la dote, contrariamente all'usanza locale che ne prevedeva la restituzione immediata alla vedova. Probabilmente a causa della mancanza di denaro, nel 1746 Isabella affrontò per la prima volta seri problemi finanziari, che furono in parte risolti grazie ai prestiti di suo padre, Stefano Maria.

Due anni dopo, nel 1748, Maria Durazzo morì e Isabella entrò in possesso della metà della dote della madre, pari a 107.967 lire genovesi, 13 soldi e 1 denaro (1/240 di lira).  L'eredità della madre era investita in una serie di titoli pubblici di diverse città italiane, che nei libri contabili di Isabella sono riportati come: Monte di San Pietro a Roma, Monte Ristoro Primo a Roma, Monti Diversi a Bologna, Depositi Capitali a Venezia presso la zecca. La gestione di questi titoli era affidata ad agenti, uno per ogni città.

L'eredità della madre diede a Isabella l'opportunità di mettere alla prova per la prima volta le sue capacità di investimento. Tuttavia, era tradizione dei patrizi genovesi, per quanto possibile, non disinvestire il denaro già impegnato. È probabilmente a causa di questa scelta e per ottenere il capitale necessario per nuovi investimenti che Isabella preferì chiedere nuovamente prestiti al padre tra il 1761 e il 1765. Questo elemento rivela la sua fiducia nella “rete di sicurezza” familiare e la sua priorità per gli investimenti redditizi. In totale, il padre le prestò circa 16.680 lire, che Isabella rimborsò interamente.

Negli stessi anni Stefano Maria, che aveva come eredi solo Isabella e Clelia, iniziò ad affidare alla sua primogenita alcuni investimenti e probabilmente ad addestrarla alla gestione finanziaria: anche il suo patrimonio si concentrava principalmente in debiti e istituzioni pubbliche degli Stati preunitari italiani, come Venezia e Bologna, o della Francia. Il 12 agosto 1761, ad esempio, Stefano Maria affidò a Isabella i suoi investimenti in diverse magistrature veneziane - 28.694 lire genovesi sul Magistrato della Zecca, Depositi, Bastioni, Generale delle Entrate - chiedendo in cambio il versamento del 54% degli interessi. In questo periodo Isabella era anche coinvolta nell'acquisto di ornamenti d'argento su commissione per altre nobildonne genovesi.

Stefano Maria fece anche donazioni disinteressate a Isabella e Clelia. In questi casi, le quote degli investimenti erano condivise dalle due sorelle (54% a Isabella, 46% a Clelia), ma era solo Isabella a gestirli e a trasferire alla sorella minore la sua parte. Clelia sembra non aver mai mostrato interesse per la gestione del denaro e degli investimenti, che delegò sempre al padre, alla sorella o al marito Bartolomeo Lomellini.

I consiglieri (fedecommissari) di Isabella furono Stefano Doria, cognato che viveva nel suo stesso palazzo con la moglie, e Agostino Airoli. Come stabilito dagli Statuti genovesi, i consiglieri erano obbligatori per le donne quando firmavano contratti, prestiti o altri documenti, ma Isabella rimarcò loro come lei avesse ampia facoltà di disporre da sola dei suoi beni.

Il patrimonio di Isabella si consolidò definitivamente grazie ad altre due eredità: quella del padre e, qualche anno dopo, quella dello zio Francesco. Stefano Maria morì il 14 giugno 1768, lasciando come eredi universali le due figlie. L'eredità consisteva in titoli pubblici nel Regno di Svezia, a Ferrara, a Bologna, a Parigi, a Vienna, a Genova e a La Spezia, oltre a prestiti privati - di solito concessi a nobili di diversi Paesi europei - e ad altri titoli di credito. Di questi, 271.918 lire genovesi spettavano a Isabella, la quale scrisse immediatamente agli agenti del padre per il trasferimento dei fondi anche per conto della sorella Clelia. Nel 1769, un anno dopo la morte di Stefano Maria e trent'anni dopo quella del marito Tommaso, la famiglia Doria restituì finalmente a Isabella la sua dote, pari a 95.000 lire genovesi.

Come accennato, Isabella ricevette un'altra eredità nel 1770 da Francesco De Mari, suo zio. Questi fece carriera come ecclesiastico e accumulò un'enorme ricchezza. L'eredità consisteva, per la maggior parte, in investimenti in titoli pubblici italiani ed esteri, mobili e arredi, dipinti, ornamenti in rame e argento, oltre a libri e vino. I soli titoli pubblici valevano 215.382 lire genovesi, a cui si aggiunsero 11.242 lire di altri beni. Nel 1770, quindi, il valore dei beni accumulati da Isabella attraverso donazioni ed eredità, esclusi i prestiti rimborsati al padre, ammontava a circa 613.938 lire genovesi.

Isabella conservò gran parte dei titoli ereditati dalla famiglia, ma non mancano istruzioni ai suoi agenti per cancellare alcuni investimenti e reinvestire il suo denaro. Ad esempio, il suo conto patrimoniale del 31 dicembre 1779 registra l'acquisto di azioni della Compagnia francese delle Indie orientali e la partecipazione a prestiti all'imperatrice Maria Teresa d’Austria. Le sue scelte di investimento riflettono la sua cultura economica e una strategia orientata al rischio.

Circa il 22,6% degli investimenti di Isabella nel 1778 era costituito da attività finanziarie non fruttifere. Tali attività erano costituite da contanti, depositi “bancari”, doti per le figlie e prestiti infruttiferi. Come nel caso dell'aristocrazia genovese, l'inclinazione alla liquidità era molto elevata, il che si spiega in parte con la spiccata tendenza a monetizzare, in parte con il desiderio di costituire una riserva di liquidità per approfittare di investimenti redditizi inaspettati, visto che gli investimenti migliori non erano sempre a disposizione degli investitori. Isabella aveva una decisa propensione a monetizzare rispetto alle altre imprese genovesi conosciute in letteratura, che in media investivano in questo settore circa il 6% dei loro attivi (Felloni 1971, 32). Questa differenza è ancora più marcata se si considerano le strategie di investimento di altre imprese gestite da nobildonne, che monetizzarono solo tra il 4 e il 2,5% del loro patrimonio.

Isabella seguì strategie diverse dalla media degli investitori anche nel settore dei beni mobili e immobili. Investì in questo campo solo il 3,6% del suo patrimonio, rispetto al 13,2 e al 5,4% delle altre due imprese femminili di cui siamo a conoscenza (Felloni 1971, 35). I beni mobili potevano essere quadri, mobili, libri o anche le bottiglie di vino ricevute dallo zio Francesco. I beni mobili e immobili erano investimenti più sicuri ma di solito non remunerativi e perciò Isabella non sembrava interessarsene troppo. I beni immobili, costituiti principalmente da proprietà immobiliari, erano considerati capisaldi insostituibili della ricchezza domestica secondo le consuetudini dell'epoca. La ricerca di una proprietà materiale e duratura poteva prevalere su quella di una rendita cospicua ma più incerta. Inoltre, i patrizi genovesi competevano per il prestigio legato all'acquisto e all'abbellimento dei loro palazzi. L'intera città andò incontro a un rinnovamento urbanistico e a una crescita esponenziale di edifici di prestigio a partire dal XVI secolo, come modo per “pietrificare” i consistenti flussi di denaro che arrivavano dagli investimenti finanziari (Doria 1986). Isabella non badò a spese per il palazzo dei Doria, ma in totale i suoi investimenti furono proporzionalmente inferiori a quelli delle imprese aristocratiche genovesi studiate finora, che investirono tra il 10 e il 40% in questo settore (Felloni 1971, 54).

In effetti, l'area di investimento primaria per Isabella era quella dei titoli. I titoli consistevano solitamente in prestiti non rimborsabili, rimborsabili o vitalizi chiesti da istituzioni pubbliche o private. Conferivano un reddito annuo variabile in base all'interesse concordato. Isabella investì ben il 49% del suo patrimonio in questa attività.

Quasi due terzi dei titoli posseduti da Isabella erano prestiti non vitalizi, la maggior parte dei quali ereditati dal padre Stefano Maria e dallo zio Francesco. Erano concentrati principalmente in Francia e negli Stati regionali del Nord Italia. Oltre a preservare gli investimenti di famiglia, Isabella fece acquistare ai suoi agenti nuove partecipazioni in prestiti o altri titoli di istituzioni in cui aveva già delle partecipazioni, dimostrando così la sua volontà di portare avanti attivamente gli affari di famiglia: Per esempio, ordinò a Nicolò Verzura, il suo agente a Parigi, di acquistare in moneta locale altre 7.000 lire tornesi di azioni della Compagnia Francese delle Indie Orientali, oltre alle 12.250 ereditate dallo zio, al tasso annuo del 4%; acquistò altre azioni delle Terme Generali e della Lotteria Quarta in Francia e, nel 1768, investì 6.191 lire genovesi in azioni del Monte San Pietro a Roma. Tra i nuovi investimenti si segnalano l'acquisto di 22.387 lire genovesi di azioni del Clero di Francia, a dimostrazione di un interesse circostanziato e non sistemico per l'investimento in istituzioni religiose, a un tasso annuo del 4%; altre 26.208 lire genovesi furono investiti in prestiti al Hotel de Ville, la città di Parigi, a un tasso del 6%; infine, 10.000 lire genovesi confluirono in un prestito all'Ospedale della Carità di Lione a un tasso del 4,5% per quindici anni, nel 1776. Questi investimenti, naturalmente, non furono sempre remunerativi come ci si aspettava. Le azioni dell'Ospedale della Carità, ad esempio, furono registrate come di ‘poca speranza’ nel bilancio di Isabella. Per quanto le sue strategie di investimento fossero finalizzate al raggiungimento del massimo profitto anche attraverso investimenti rischiosi, non mancarono spese per opere di carità ed elemosine, come forse nel caso dell'Ospedale della Carità di Lione. Nel 1778 inoltre, adempiendo a un voto, Isabella si recò in pellegrinaggio al santuario di Nostra Signora della Misericordia di Savona. Tra il 1778 e il 1784, spese in media 4.000 lire all'anno in elemosine. Si tratta di somme irrisorie rispetto ai capitali che investiva e scambiava sui principali mercati finanziari e creditizi europei, ma che testimoniano la fede religiosa di questa donna investitrice con la passione per gli investimenti rischiosi.

I titoli vitalizi di Isabella furono una minoranza, ma fanno luce sulla sua predilezione per l'azzardo e sui suoi contatti con la nobiltà genovese, per la quale agiva come una sorta di broker finanziario. A Parigi, il suo agente acquistò tre biglietti della Lotteria regia seconda per un valore di 1.875 lire genovesi con un interesse dell'8% sulla vita della figlia Teresa Maddalena. Questo contratto era l'equivalente di un'obbligazione del lotto: mentre nell'obbligazione ordinaria il numero di emissione determina il rimborso della somma prestata seguendo l'ordine numerico, nell'obbligazione del lotto il numero di emissione veniva estratto tra tutti i numeri dei sottoscrittori e poteva essere associato a premi del lotto consistenti in enormi somme di denaro (Lévy-Ullmann 1896). Isabella investì anche 3.754 lire nella Tontina decima del 1760. Le Tontine combinavano le caratteristiche di una rendita collettiva con una sorta di lotteria sulla mortalità. Ogni sottoscrittore versava una somma in un fondo e successivamente riceveva un versamento periodico. Quando i membri morivano, i loro diritti di rendita passavano agli altri partecipanti, e quindi il valore di ogni rendita aumentava. Alla morte dell'ultimo membro, il piano fiduciario era solitamente liquidato (Weir 1989). Il 62,5% di questo investimento era sulla vita di Isabella stessa e il restante 37,5% sulla vita di altre sei persone - donne incluse - per lo più appartenenti alla nobiltà genovese: Giuseppe Maria Torre, Giovanni Battista Enrile, Andrea Francesco Maria Granara, Maria Giovanna Groppallo Ferretta, Maria Francesca Saveria Brignole Spinola e Giovanni Antonio Ragno.

Infine, il 24,6% degli investimenti di Isabella era dedicato a prestiti non vitalizi. A differenza dei prestiti legati al commercio e alla navigazione, molto diffusi a Genova, quelli di Isabella erano esclusivamente prestiti o sottoscrizioni di prestiti a cittadini genovesi ed europei, per i quali si prevedeva la restituzione del capitale entro un certo periodo.

Isabella ricorreva a un tipo di prestito chiamato “mutuo fruttifero all'uso di Genova” (Felloni 1998, 675-676). Questi prestiti erano solitamente concessi da finanzieri genovesi, riuniti in società private, a mutuatari stranieri. Il contratto prevedeva la tutela dei creditori, stabilendo che la sottoscrizione, il rimborso e il pagamento degli interessi dovessero avvenire a Genova, in moneta corrente, senza detrazioni e alle scadenze concordate. Il documento specificava le garanzie dovute dal debitore e stabiliva il suo obbligo di far approvare il contratto nel proprio Paese di residenza, al fine di conferirgli validità legale, compresa l'esenzione dei creditori da qualsiasi imposta o ritenuta estera. Questi prestiti avevano una durata media di 8-12 anni e in genere fruttavano un interesse del 4-5%.

Tra i debitori di Isabella c'erano nobili e personaggi di spicco che pagavano interessi relativamente affidabili. Ad esempio, l'imperatrice Maria Teresa d'Austria ricevette prestiti da capitalisti genovesi, tra cui Isabella, nel 1767, 1771, 1778 e 1779, garantiti dal suo “tesoro sovrano” e da depositi in banconote della Banca di Vienna che coprivano l'intero importo. Non fu sempre così. Massimiliano Giuseppe, duca di Baviera, offrì solo una garanzia parziale per un prestito di 500.000 fiorini, sotto forma di proprietà allodiali della signoria di Suezburg e Birbaum con le rispettive adiacenze, e di una birreria situata a Muklhausen, per un valore totale di 37.000 fiorini. Tra i prestiti effettuati dalla sola Isabella vi sono il prestito di 10.000 lire genovesi al Duca d'Angiò e ulteriori prestiti all'Imperatrice Maria Teresa. I restanti prestiti di Isabella furono quasi tutti contratti nella Repubblica di Genova e in Germania, e spesso derivavano da eredità lasciate da Stefano e Francesco Maria De Mari. In totale, grazie alle sue strategie di investimento tra il 1770 e il 1785 il patrimonio di Isabella aumentò di circa il 33%.

In aggiunta alla brillante gestione dei suoi investimenti e delle sue attività speculative, Isabella fu anche un'attiva giocatrice d'azzardo, partecipando a partite a carte in diverse case della nobiltà genovese, tra cui la sua. Tuttavia, chiuse il suo bilancio di gioco con 4.169 lire di vincite contro 6.284 lire di perdite. Isabella giocava nelle case dei Centurione, Durazzo, Fieschi, Grillo, Grimaldi, Lercari, Sauli e Spinola, tra le famiglie nobili genovesi più ricche e potenti. Lei stessa ospitò alcune serate di gioco, mentre altre furono ospitate da nobildonne come Giovannetta Centurione, Giovannetta Mari, Antonietta Sauli o Marina Spinola. I tavoli da gioco erano luogo di relazioni paritarie tra giocatori e giocatrici in modo simile ai caffè o club in altre parti d'Europa (Kümin 2007; Clark 2000). Inoltre, anche se un evento si concludeva con una piccola perdita monetaria, l'interazione con gli altri nobili/investitori poteva portare a benefici ben maggiori in termini di raccolta di informazioni e di strategie di investimento.

In conclusione, Isabella mostrò una forte inclinazione verso gli investimenti “rischiosi”, inclinazione che si ripagò ampiamente nel corso degli anni. Alla sua morte, avvenuta il 30 marzo 1785, il suo patrimonio netto ammontava a più di 900.000 lire genovesi. L'erede universale fu il figlio Giorgio, sposato con Aurelia Grimaldi nel 1759 (Saginati 2004, XCV). Isabella lasciò anche all'unica figlia superstite, Teresa Maddalena, che si era fatta monaca, 500 lire e una rendita vitalizia di 200 lire l'anno. Non si tratta di una somma elevata rispetto a quella lasciata al figlio, indicativa di una scelta familiare tradizionale. Rimane da scoprire se Isabella abbia cercato di trasmettere parte delle sue conoscenze e dei suoi interessi a Teresa Maddalena o ad altre sue figlie, purtroppo morte prematuramente.

Gli scritti di Isabella sono stati creati per scopi pratici, ma rivelano la sua cultura economica e la determinazione con cui operava nella sfera finanziaria. L'esperienza pratica è strettamente legata al pensiero e alla cultura economica. Le attività di Isabella si inseriscono nel più ampio filone delle attività economiche della nobiltà genovese dell'epoca, e la sua condizione di donna al comando non sembra aver influenzato le sue scelte di investimento. Isabella De Mari è stata un esempio di investitrice ben integrata, la cui ricchezza e il cui status le hanno permesso di esprimere con successo il proprio atteggiamento economico in un campo tradizionalmente dominato dagli uomini.

OPERE

Pubblicazioni

Attività a carattere economico

Traduzioni

Manoscritti e altri documenti

BIBLIOGRAFIA

  • Clark, Peter. 2000. British Clubs and Societies 1580-1800: The Origins of an Associational World. Cambridge. Cambridge University Press.
  • Doria, Giorgio. 1986. “Investimenti della nobiltà genovese nell'edilizia di prestigio (1530-1630)”. Studi Storici, 27(1), pp. 5-55.
  • Felloni, Giuseppe. 1971. Gli investimenti finanziari genovesi in Europa tra il Seicento e la Restaurazione. Milano. Giuffré.
  • Felloni, Giuseppe. 1998. “Il Ceto Dirigente a Genova nel Secolo XVII: Governanti o Uomini d’Affari?”. Atti della Società Ligure di Storia Patria, 38, pp. 1323-1340.
  • Kümin, Beat. 2007. Drinking Matters. Public Houses and Social Exchange in Early Modern Central Europe. Londra. Pallgrave Macmillan.
  • Lévy-Ullmann, Henry. 1896. “Lottery Bonds in France and in the Principal Countries of Europe”. Harvard Law Review, 9(6), pp. 386-405.
  • Saginati, Liana. 2004. L’Archivio dei Doria di Montaldeo. Registri contabili, manoscritti genealogici e pergamene. Genova. Centro di Studi e Documentazione di Storia Economica «Archivio Doria».
  • Weir, David R. 1989. “Tontines, Public Finance, and Revolution in France and England, 1688–1789”. Journal of Economic History, 49(1), pp. 95-124.

FONTI ARCHIVISTICHE

  • Centro di Studi e Documentazione di Storia Economica «Archivio Doria» - 641, Giorgio Doria di Ambrogio, 1728
  • Centro di Studi e Documentazione di Storia Economica «Archivio Doria» - 811, T. Ambrogio Doria di Giorgio (1691-1739), 1728-1749
  • Centro di Studi e Documentazione di Storia Economica «Archivio Doria» - 812, T. Ambrogio Doria di Giorgio (1691-1739), 1728-1749
  • Centro di Studi e Documentazione di Storia Economica «Archivio Doria» - 818, Isabella De Mari Doria, 1762-1771
  • Centro di Studi e Documentazione di Storia Economica «Archivio Doria» - 819, Isabella De Mari Doria, 1760-1773
  • Centro di Studi e Documentazione di Storia Economica «Archivio Doria» - 821, Isabella De Mari Doria, 1748-1768
  • Centro di Studi e Documentazione di Storia Economica «Archivio Doria» - 824, Isabella De Mari Doria, 1768-1777
  • Centro di Studi e Documentazione di Storia Economica «Archivio Doria» - 826, Isabella De Mari Doria, 1778-1786

SITOGRAFIA

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